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“Carta del docente”: depositati dall’Avv. Fabio Amici e dall’Avv. Chiara Egle Orsini i ricorsi in varie giurisdizioni umbre.

Come è noto, l’art. 1, comma 121, della L. 107/2015 ha previsto e tuttora prevede che “Al fine di sostenere la formazione continua dei docenti e di valorizzarne le competenze professionali, è istituita, nel rispetto del limite di spesa di cui al comma 123, la Carta elettronica per l’aggiornamento e la formazione del docente di ruolo delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado.

Il successivo comma 122 del citato art. 1 della L. 107/2015 demanda(va) a un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, la definizione dei criteri e delle modalità di assegnazione e di utilizzo della Carta in questione, mentre il comma 124 del medesimo art. 1 ribadi(va) il carattere obbligatorio della formazione dei docenti, da definite da parte delle singole istituzioni scolastiche.

A sua volta, il C.C.N.L. di categoria, siglato in data 29.11.2007, stabiliva (e stabilisce) che “la formazione costituisce una leva strategica fondamentale per lo sviluppo professionale del personale (…)” e che “l’Amministrazione è tenuta a fornire strumenti, risorse e opportunità che garantiscano la formazione in servizio” (art. 63), mentre “la partecipazione ad attività di formazione e di aggiornamento costituisce un diritto per il personale in quanto funzionale alla piena realizzazione e allo sviluppo delle proprie professionalità” (art. 64)

Nonostante tali previsioni di contratto collettivo, in attuazione art. 1 della L. 107/2015 (di diverso tenore) veniva emanato dal Ministero dell’Istruzione il d.P.C.M. 23 settembre 2015 (le cui disposizioni sono state poi sostituite da quelle del d.P.C.M. 28 novembre 2016 a far data dal 2 dicembre 2016), rubricato “modalità di assegnazione e di utilizzo della Carta elettronica per l’aggiornamento e la formazione del docente di ruolo delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado“.

L’art. 2 di tale d.P.C.M. individuava i destinatari della suddetta Carta elettronica, indicandoli al comma 1, nei “docenti di ruolo a tempo indeterminato presso le Istituzioni scolastiche statali, sia a tempo pieno che a tempo parziale, compresi i docenti che sono in periodo di formazione e prova“. Il successivo comma 4 ribadiva poi che “la Carta è assegnata, nel suo importo massimo complessivo, esclusivamente al personale docente a tempo indeterminato di cui al comma 1“.

L’art. 4 del medesimo d.P.C.M., inoltre, elencava le modalità di utilizzo della Carta, riproducendo in buona sostanza le previsioni dell’art. 1, comma 121, della l. n. 107/2015.

Sulla base di tale quadro normativo e del primo decreto ministeriale attuativo, il Ministero dell’Istruzione aveva peraltro emanato la nota prot. n. 15219 del 15 ottobre 2015 (doc. 190), la quale, al punto 2 (“Destinatari“), ribadiva che “la Carta del docente (e il relativo importo nominale di 500 euro/anno) è assegnata ai docenti di ruolo delle Istituzioni scolastiche statali a tempo indeterminato, sia a tempo pieno che a tempo parziale, compresi i docenti in periodo di formazione e prova, che non siano stati sospesi per motivi disciplinari (art. 2 DPCM)“.

I d.P.C.M. del 23.9.2015 e 28.11.2016 e la nota prot. n. 15219 del 15.10.2015, pertanto, individuavano come esclusivi destinatari dell’indennità di cinquecento (500,00) euro all’anno della suddetta Carta elettronica (detta “Carta del docente”), i soli docenti di ruolo a tempo indeterminato presso le istituzioni scolastiche, cosicché tutti i docenti assunti in servizio a tempo determinato, come gli odierni ricorrenti, non potevano percepire ed in effetti non hanno mai percepito il relativo beneficio.

Della questione si cominciata ad occupare la giurisprudenza amministrativa a partire dall’anno 2016, allorquando il Tar Lazio, con una sentenza della III Sezione (n. 7799/16), confermava gli atti amministrativi del Ministero e la loro applicazione della normativa del 2015, escludendo il personale docente assunto a tempo determinato dalla cerchia dei destinatari della Carta del docente.

In data 16.3.2022 è stata tuttavia pubblicata la sentenza della Sez. VII del Consiglio di Stato n. 1842/2022, che, riformando tale ultima decisione, ha fornito una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art.1, comma 121, della L. 107/2015, stabilendo che tra i destinatari della istituzione della Carta del docente vadano ricompresi anche i docenti a tempo determinato, con conseguente annullamento dei d.P.C.M. del 2015/16 e della circolare del Ministero dell’Istruzione prot. n. 15219 del 15.10.2015 nella parte in cui hanno escluso il riconoscimento di tale istituto ai docenti precari.

Tale decisione, peraltro, è stata motivata tenendo conto anche della disciplina prevista in tema di formazione dei docenti dal ricordato C.C.N.L. di categoria (v. artt. 63 e 64 del C.C.N.L. del 29.11.2007; doc. 184), andando dichiaratamente a “colmare” una “lacuna previsionale dell’art. 1, comma 121, della l. n. 107/2015, che menziona i soli docenti di ruolo”: l’estensione anche ai docenti non di ruolo dei benefici della Carta del docente, è stata dunque disposta introducendo “in via interpretativa” una previsione non presente nella norma (v. C.d.S. n. 1842/2022 cit., punto 6.2.2 in fondo).

Poiché dunque il diritto-dovere di formazione professionale e aggiornamento grava su tutto il personale docente e non solo su un’aliquota di esso l’erogazione della Carta, secondo tale condivisibile decisione, deve essere riconosciuta sia al personale di ruolo che a quello a tempo determinato.

Con successiva Ordinanza della Corte di Giustizia della U.E. (sez. VI del 18.5.2022), la medesima disposizione di cui all’art. 1, comma 121, della L. 107/2015 è stata ritenuta in contrasto con la clausola 4, punto 1, dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18.3.1999 sempre nella parte in cui riserva al solo personale docente a tempo indeterminato e non anche a quello a tempo determinato il beneficio del vantaggio finanziario di cinquecento (500,00) euro all’anno della “Carta del docente”, con violazione, tra l’altro, del generale principio di non discriminazione.

Per effetto di tali interventi giurisprudenziali, aventi carattere innovativo e di interpretazione costituzionalmente orientata e conforme al diritto europeo della norma primaria, il diritto all’indennità della “Carta del docente” deve essere pertanto esteso e riconosciuto ai docenti a tempo determinato, a partire dall’a.s. 2015/2016 e fino a tutto l’a.s. 2021/2022 appena trascorso, con loro diritto alla assegnazione della Carta anche per l’anno scolastico 2022/23 in corso di svolgimento e per quelli a venire ove i medesimi ricorrenti saranno destinatari di contratti a tempo determinato.

Tale riconoscimento è già stato oggetto anche di recenti pronunce giurisprudenziali da parte di corti di merito, tra le quali il Tribunale di Torino, il Tribunale di Vercelli, il Tribunale di Palmi e, da ultimo il Tribunale di Terni.

Alla luce di tale mutato quadro giuridico ed amministrativo, pertanto, la posizione del Ministero è divenuta del tutto incomprensibile, avendo potuto (e dovuto) essere data spontanea attuazione a quanto ormai ritenuto pacifico dalla giurisprudenza di settore.

In mancanza di ciò, molti docenti umbri hanno avviato una massiccia iniziativa giudiziaria con il supporto di una nota sigla sindacale. Gli esiti si sapranno a breve.


Revoca dell’aggiudicazione per ritardo nella consegna dei lavori ed esclusione di concorrente sottoposto a sequestro giudiziario (con esclusione della applicazione dell’art. 80, co. 11, del D. Lgs. n. 50/2016)

Con due importanti decisioni pubblicate il 24 febbraio scorso (n. 94/2023 e n. 99/2023) il Tar Umbria ha affermato alcuni importanti principi in materie di gare pubbliche per l’affidamento di lavori, in due giudizi patrocinati dall’Avv. Fabio Amici.

A fronte della avvenuta revoca della aggiudicazione della prima classificata per avere questa colpevolmente ritardato la consegna dei lavori in via d’urgenza e della successiva esclusione della seconda classifica per avere questa omesso informazioni rilevanti sulla sussistenza di gravi illeciti professionali e per sopravvenuta carenza di requisiti di partecipazione, il Collegio umbro ha puntualizzato alcune delicate questioni giuridiche in materia di pubblici appalti.

Da una parte, con la decisione n. 94/2023, è stata ritenuta corretta la condotta dell’amministrazione aggiudicatrice che aveva deciso di revocare l’aggiudicazione a causa della impossibilità della consegna anticipata dei lavori, e ciò coerentemente al consolidato orientamento giurisprudenziale concludente per la legittimità di una revoca/decadenza dell’aggiudicazione in ragione dell’inadempimento da parte dell’aggiudicatario “dell’obbligo, previsto negli atti di gara, di procedere d’urgenza all’inizio dei lavori, su richiesta dell’amministrazione, nelle more della stipula del contratto”.

Del pari, è stata ritenuta legittima la revoca dell’aggiudicazione a fronte della mancata produzione della documentazione “attinente alla fase esecutiva e di apertura del cantiere (come la idoneità tecnico-professionale di cui agli articoli 17 ed 89 del D. Lgs. n. 81/2008 o il Piano Operativo di Sicurezza) la cui conformità a legge deve essere necessariamente verificata al momento dell’inizio dei lavori anche in caso di consegna anticipata rispetto alla stipulazione del contratto”, come anche la pretesa della stazione appaltante di ottenere a tal scopo il “programma esecutivo dei lavori che, ai sensi del DM 49/2018, l’impresa aggiudicataria deve presentare prima dell’inizio dei lavori”.

Il comportamento dilatorio ed inadempiente assunto dall’aggiudicataria tra la fase di aggiudicazione e quella di verifica dei requisiti e di acquisizione della documentazione propedeutica alla stipula è stato ritenuto quale chiaro indice di inaffidabilità della stessa, con la conseguenza che è stata valutata legittima la motivazione della revoca adottata dall’amministrazione secondo cui “anche i lamentati ritardi nelle attività preliminari alla stipula del contratto di appalto potevano in linea di principio giustificare, da sé soli, la revoca dell’aggiudicazione, come pure sanzionabile “il reiterato atteggiamento non cooperativo dell’aggiudicatario, obiettivamente idoneo a ritardare la stipula del contratto anche a fronte di servizi dichiaratamente connotati di urgenza, in presenza di motivate ragioni di pubblico interesse”.

Di particolare interesse è anche la seconda decisione n. 99/2023, intervenuta a dirimere la controversia che si era poi innestata nella medesima procedura, in considerazione della successiva esclusione della concorrente seconda classificata, che aveva comunicato la volontà di subentro condizionandola ad una determinata data di inizio dei lavori e che aveva rappresentato tardivamente l’intervenuta adozione di provvedimenti giudiziari a carico dei propri socie e legali rappresentanti.

Questa seconda decisione è peraltro intervenuta a dirimere la complessa fattispecie giuridica disciplinata dall’art. 80, co. 11, del D. Lgs. n. 50/2016, in quanto la società seconda classificata era stata posta in amministrazione giudiziaria nella fase di espletamento della gara.

Sul punto, il Tar Umbria ha ritenuto corretta l’esclusione disposta dalla stazione appaltante, in quanto il comportamento omissivo rilevante ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c-bis), del d.lgs. n. 50/2016, si era verificato successivamente all’apertura dell’amministrazione giudiziaria, non avendo l’amministratore giudiziario a tal uopo nominato, nonostante fosse a conoscenza delle misure cautelari a carico di amministratori e soci della società sequestrata e nonostante si fossero tenute ben due sedute di gara dopo la notifica dei provvedimenti di sequestro e custodia cautelare a loro carico, provveduto alla tempestiva comunicazione di tali circostanze alla stazione appaltante.

Ne è conseguito il venir meno di uno dei presupposti di astratta applicabilità dell’art. 80, comma 11, del d.lgs. n. 50/2016, ovvero la riferibilità della causa di esclusione ad un periodo precedente all’affidamento all’amministrazione giudiziaria.

In ogni caso, ha aggiunto il Tar Umbria, in occasione dell’aggiornamento del DGUE, lo stesso amministratore giudiziario si era qualificato come amministratore volontario della società (non chiedendo e/o segnalando l’applicazione dell’art. 80, comma 11 del Codice) e non aveva colpevolmente dichiarato l’avvenuta sottoposizione della società ad un sequestro di sproporzione di cui all’art. 240-bis c.p., rilevante agli effetti di cui all’art. 80, comma 11, del d.lgs. n. 50/2016.


Motivi aggiunti e contributo unificato: importante decisione della Corte di Giustizia Tributaria di Roma

Con una importante decisione del 3 ottobre scorso (n. 10680/2022) la Corte di Giustizia Tributaria di Roma ha accolto il ricorso di una società che chiedeva l’esonero dal pagamento del contributo unificato per la proposizione di motivi aggiunti in un giudizio in materia di appalti pubblici avanti al Tar Lazio.

L’amministrazione resistente sosteneva che la proposizione dei motivi aggiunti avrebbe determinato un considerevole ampliamento dell’oggetto della controversia in quanto sarebbero state introdotte nuove e diverse censure riferite ad un nuovo e diverso provvedimento. In sostanza, il Tar sposava l’interpretazione in base alla quale sarebbe comunque da considerare “domanda nuova” – per la quale sorgerebbe l’obbligo di pagamento di un ulteriore contributo unificato – quella con cui viene impugnato un atto nuovo e diverso rispetto a quello gravato dal ricorso introduttivo.

La tesi è stata ritenuta priva di pregio dalla Corte Tributaria che ha fatto corretta applicazione, tra l’altro, dell’art. 43 del c.p.a., che prevede due tipologie di motivi aggiunti: quelli “propri” che prospettano censure nuove avverso gli stessi atti, ampliando il thema decidendum sul fronte della causa petendi; e quelli “impropri” volti ad impugnare nuovi atti facenti parte del medesimo iter procedimentale ed emanati in pendenza del giudizio, ampliativi del petitum.

In passato, la differenza tra le descritte tipologie di motivi aggiunti era stata ritenuta decisiva ai fini dell’applicazione del regime del contributo unificato. Si riteneva, infatti, che il C.U. non dovesse essere corrisposto in caso di proposizione di “motivi aggiunti propri”; viceversa si riteneva fossero soggetti a nuovo C.U. i “motivi aggiunti impropri” indipendentemente dal contenuto della “nuova” impugnazione e del “grado” di connessione esistente tra gli atti impugnati.

Tale interpretazione, tuttavia, è stata superata a seguito, dapprima, della sentenza C-61/14 della Corte di Giustizia UE, e poi delle note sentenze delle SS.UU. della Cassazione del 2020 nn. 23873 e 23530.

La Suprema Corte, superando nettamente la distinzione tra motivi aggiunti propri e impropri, ha statuito: “In tema di processo amministrativo, al fine di stabilire se sia dovuto il contributo unificato atti giudiziari in caso di deposito di motivi nuovi con il quale si impugnino nuovi atti, non rileva la distinzione tra motivi propri ed impropri, ma, conformemente alla giurisprudenza unionale, occorre accertare se essi determinino un considerevole ampliamento del “thema decidendum” della causa principale, sicché solo in caso di connessione forte tra atti, i quali siano legati da un rapporto di pregiudizialità-dipendenza, è escluso l’assoggettamento al contributo”(Cass. civ. sez. VI, 3.11.2021, n. 31294).

Il criterio di determinazione del regime fiscale del C.U. in caso di proposizione di motivi aggiunti, dunque, deve essere quello del “considerevole ampliamento dell’oggetto della controversia già pendente” alla luce dell’istituto della connessione “forte” o “debole” tra i provvedimenti.

Come noto, la giurisprudenza amministrativa ritiene sussistenti i tratti della connessione “forte” quando sia possibile osservare un legame di consequenzialità necessaria tra i provvedimenti, ovvero quando l’uno costituisca il fondamento dell’altro, cosicché l’illegittimità di quello pregiudiziale provoca l’illegittimità di quello dipendente.

Nel caso di specie, la Determina Dirigenziale impugnata con i motivi aggiunti era dichiaratamente confermativa del provvedimento già oggetto del ricorso principale.

Nessuna modifica sostanziale della graduatoria, né alcun supplemento di istruttoria e rivalutazione delle offerte, erano state disposte con tale determina che, appunto, disponeva di “confermare” il provvedimento impugnato con il ricorso principale. La rettifica operata con suddetta determina risultava dunque meramente confermativa del presupposto provvedimento di aggiudicazione, reiterandone pedissequamente il contenuto lesivo e correggendone solo un errore qualificabile come materiale, sicché non era produttiva di alcun effetto innovativo lesivo per il destinatario.

Al fine di non rischiare di incorrere nella inammissibilità del ricorso principale per intervenuta carenza di interesse, la società ricorrente aveva in via cautelativa proposto motivi aggiunti al ricorso, riproponendo in via derivata i medesimi motivi di gravame già rivolti contro l’atto rettificato (salvo ovviamente quello relativo alla erroneità del conteggio dei punteggi), motivi che venivano pedissequamente trascritti nell’atto.

Emergeva dunque che il provvedimento di rettifica e conferma presentava un legame di stretta e necessaria consequenzialità con la prima aggiudicazione e dunque in connessione “forte” con quest’ultima, essendo entrambi i provvedimenti segmenti del medesimo procedimento amministrativo ed essendo le ragioni della lamentata illegittimità dell’atto consequenziale identiche a quelle rivolte contro l’atto presupposto.

Pertanto, appariva evidente come tale provvedimento di rettifica e conferma oggetto dei motivi aggiunti si ponesse in netta continuità con l’originario provvedimento di aggiudicazione, che è appunto l’oggetto del ricorso principale, in quanto ne integrava una mera conferma a seguito non di un approfondimento istruttorio, ma della semplice correzione di un errore materiale di calcolo

Nessun ampliamento del thema decidendum era pertanto derivato dai motivi aggiunti che sono stati meramente ripetitivi delle censure di gravame già articolate in via principale.

Tesi accolta dalla Corte Tributaria di Roma


Construction workers working on construction site

Approvata la proroga di un anno dei termini dei permessi a costruire e dei piani attuativi

La legge 20 maggio 2022, n. 51 (G.U. n.117 del 20.5.2022), nel convertire in legge, con modificazioni, il decreto-legge 21 marzo 2022, n. 21 (c.d. “Decreto Ucraina bis”), ha prorogato di un anno i termini di inizio e di ultimazione lavori dei titoli edilizi di cui all’art. 15 del T.U.E. ed i termini di validità delle convenzioni di lottizzazione e dei piani attuativi (v. art. 10-septies L. 51/2022).

La proroga si riferisce ai permessi di costruire “rilasciati o formatisi fino al 31 dicembre 2022” e non è automatica, in quanto è subordinata alla “comunicazione dell’interessato di volers(ene) avvalere” e alla condizione che i relativi termini non siano già decorsi e che i titoli edilizi siano urbanisticamente e paesaggisticamente non in contrasto con strumenti nel frattempo approvati. La proroga si applica anche a SCIA, autorizzazioni paesaggistiche e dichiarazioni e/o autorizzazioni ambientali.

Prorogate di un anno anche le convenzioni  di lottizzazione e piani attuativi “formatisi fino al 31 dicembre 2022”. In questo caso la proroga sembra essere automatica e si applica anche a piani e convenzioni che abbiano già usufruito delle proroghe disposte nel 2013 dal c.d. “Decreto del fare” (3 anni) e nel 2020 dal c.d. “Decreto Semplificazioni” (ulteriori 3 anni).

Tale ulteriore proroga riferita alle precedenti del 2013 e 2020 sembra ancora una volta confermare che il Decreto del Fare del 2013 debba essere interpretato come riferito anche alla validità dei piani attuativi (sul punto, la giurisprudenza amministrativa non è stata concorde: favorevole a tale interpretazione Tar Umbria, 10.7.2014, n. 381; contrari il Tar Veneto, Sez. II, 19.6.2019, n. 743 e Tar Campania, Sez. II, 14.2.2018, n. 10).

La nuova disposizione di proroga del Decreto Ucraina bis, così come quella del luglio 2020, sembrano pertanto contenere un inciso di “interpretazione autentica” della disposizione del 2013 e così rendere esplicita l’applicabilità ai piani attuativi di entrambe le proroghe triennali (del 2013 e del 2020), oltre a quella annuale dei giorni scorsi.


Sul decorso dei termini per l’attuazione dei Piani Attuativi

In base alla normativa nazionale, decorso il termine stabilito per l’attuazione dei piani particolareggiati, quali i Piani Attuativi, questi diventano inefficaci per la parte che non abbia avuto attuazione, rimanendo fermo a tempo indeterminato soltanto l’obbligo di osservare gli allineamenti dei fabbricati e le prescrizioni di zona stabilite dai piani stessi (art. 17 della L. 1150 del 17.8.1942).

La L.R. Umbria 1/2015, all’art. 57, riproduce sostanzialmente le previsioni della disciplina nazionale, specificando che:

  1. Il termine entro il quale il Piano deve essere attuato è di 10 anni;
  2. decorso tale termine il Piano decade automaticamente per la parte non attuata, ferma la possibilità a tempo indeterminato di realizzare gli interventi edilizi con l’obbligo di osservare gli allineamenti e le prescrizioni di zona;
  3. la parte di piano non attuata e non urbanizzata può essere urbanizzata ed edificata previa approvazione di un nuovo piano attuativo.

Negli ultimi anni sono intervenute diverse norme che hanno disposto la proroga per legge del termine di validità delle convenzioni urbanistiche, accordi similari e relativi piani attuativi.

Il D.L. n. 69/2013 (c.d. “Decreto del fare”), all’art. 30, co. 3-bis, ha disposto che il termine di validità, nonché i termini di inizio e fine lavori nell’ambito delle convenzioni di lottizzazione (art. 28 L. 1150/1942), ovvero degli accordi similari comunque nominati dalla legislazione regionale, stipulati sino al 31 dicembre 2012, sono prorogati di tre anni.

Sul punto, la giurisprudenza amministrativa non è stata concorde nello stabilire se tale proroga di tre anni dovesse ritenersi applicabile anche alla validità dei piani attuativi o meno (favorevole a tale interpretazione Tar Umbria, 10.7.2014, n. 381; contrari il Tar Veneto, Sez. II, 19.6.2019, n. 743 e Tar Campania, Sez. II, 14.2.2018, n. 10).

La questione sembrerebbe tuttavia essere stata superata dall’art. 10, co. 4-bis, del D.L. 16.7.2020 n. 76 (c.d. “Decreto Semplificazioni”) che, nel disporre un’ulteriore proroga di tre anni degli stessi termini prorogati dal “Decreto del Fare” del 2013 per le convenzioni di lottizzazione ed accordi similari, ha precisato che tale proroga riguarda anche i “relativi piani attuativi”, con l’ulteriore precisazione che la medesima si applica anche a quei piani attuativi “che hanno usufruito della proroga di cui all’art. 30, co. 3-bis, del D.L. n. 69/2013 (c.d. “Decreto del fare”).

La nuova disposizione di proroga del luglio 2020 sembra pertanto contenere un inciso di “interpretazione autentica” della disposizione del 2013 e così rendere esplicita l’applicabilità ai piani attuativi di entrambe le proroghe triennali (del 2013 e del 2020).

Per i piani attuativi approvati prima del 31 dicembre 2012 pertanto le potenziali proroghe sono due, entrambe di tre anni, con possibile postergazione massima del termine di complessivi sei anni.


Contratti pubblici: questioni attuali e prospettive evolutive. Convegno a Perugia il 5 novembre 2021

La Scuola Forense “Gerardo Gatti” del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Perugia, in collaborazione con il Distretto Didattico Territoriale di Perugia della Scuola Superiore della Magistratura, ha organizzato per il prossimo 5 Novembre un interessante convegno in materia di contratti pubblici.

Responsabili della Sessione gli Avv.ti Fabio Amici e Fabio Buchicchio dello Studio Avvocati & Commercialisti, componenti del Comitato Scientifico Scuola Forense “Gerardo Gatti” ed esperti di diritto amministrativo.

Di particolare interesse le relazioni del Consigliere di Stato Stefano Fantini, che proporrà una rassegna dei più recenti trend giurisprudenziali in materia di contratti pubblici, e dell’Avv. Stato Mario Capolupo, Capo dell’Ufficio Legislativo del Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, che illustrerà le riforme normative in itinere nell’ambito del quadro di riferimento del PNRR.

Il successivo dibattito tra i partecipanti e gli avvocati del Foro vedrà la già programmata partecipazione del Presidente della Camera Amministrativa dell’Umbria, Avv. Massimo Marcucci, e dell’Avv. Daniele Spinelli, docente alla SDA Bocconi School of Management ed esperto del settore.


Dietrofront del Consiglio di Stato sulle Graduatorie per le supplenze nella Scuola (GPS): nella querelle sulla giurisdizione la VI sezione torna sui propri passi.

Con la sentenza n. 5545 del 17.9.2021, la VI Sezione del Consiglio di Stato ha negato la natura concorsuale delle procedure di formazione delle Graduatorie Provinciali per le Supplenze nella Scuola (GPS), attribuendo le relative controversie al Giudice Ordinario.

Si tratta di una decisione a dir poco sorprendente, che ribalta una pronuncia di soli dieci giorni prima della stessa VI Sezione che sembrava avere definitivamente risolto la questione sulla giurisdizione in materia di GPS.

Con la sentenza n. 6230 del 7.9.2021, infatti, la IV sezione del Consiglio di Stato aveva riconosciuto la natura concorsuale delle procedure di formazione delle GPS, chiarendo che, comunque, la giurisdizione dovesse essere stabilita avuto riguardo al petitum sostanziale.  

Tale decisione, dopo mesi di contrasti tra i tribunali regionali amministrativi italiani, aveva infatti ritenuto che le modalità di formazione delle GPS non fosseroidonee ad escludere la tradizionale qualificazione della relativa procedura come concorsuale,  sebbene per essa non sia prevista la costituzione di una commissione di concorso per la valutazione dei titoli (in prima battuta tale valutazione è affidata al sistema informatico e solo successivamente agli uffici scolastici), né l’attribuzione dei punteggi sulla base di veri e propri criteri di valutazione (che vengono assegnati in base a quanto previsto dalle tabelle allegate all’ordinanza ministeriale di indizione della procedura).

A soli 10 giorni da tale pronuncia, tuttavia, la medesima IV sezione ha effettuato una valutazione dai contenuti diametralmente opposti.

Con la ricordata sentenza n. 5545 del 17.9.2021, infatti, il Consiglio di Stato ha statuito che per l’inserimento nelle GPS “non è previsto alcun bando di concorso, né procedura selettiva, né valutazione degli aspiranti, ma tale inserimento è asetticamente predeterminato dall’O.M. 60/2020 […] all’esito di una operazione di mero acclaramento con riguardo ai titoli posseduti e dichiarati dal candidato”.

Pertanto, secondo il Collegio, le GPS devono essere parificate alle vecchie Graduatorie ad Esaurimento (GAE), per le quali viene pacificamente negata da anni la natura di procedura concorsuale, con le relative conseguenze in termini di giurisdizione del giudice ordinario.

Ad oggi, dunque, anche a fronte di ripetuti pronunciamenti contrastanti di molti TAR, continuano a permanere dubbi in ordine al giudice da adire nell’ambito di controversie sulle GPS, con buona pace dei docenti e del principio costituzionale del giudice naturale precostituito.

A cura dell’Avv. Chiara Egle Orsini


Green Pass nei luoghi di lavoro e adempimenti privacy alla luce dell’entrata in vigore del Decreto Legge n. 127/2021

Con l’entrata in vigore il 22 settembre u.s. del D.L. 127/2021 è stato introdotto l’obbligo del possesso della certificazione verde (green pass) per tutti gli ambienti di lavoro, privati e pubblici, a partire dal 15 di ottobre p.v. sino al 31 dicembre 2021 (salvo ulteriori proroghe), data che coincide con il termine finale dello stato di emergenza.

Dal 15 ottobre, pertanto, tutti i lavoratori che vorranno accedere ai luoghi di lavoro, unitamente a coloro che prestano attività di formazione e/o di volontariato presso i locali aziendali, dovranno essere in possesso del green pass in corso di validità ed esibirlo in fase di opportuno controllo, altrimenti dovrà essere impedito loro l’ingresso ai locali aziendali.

Sotto il profilo della tutela della riservatezza, due elementi assumono particolare rilievo:

(a) non è consentito al datore di lavoro (sia esso pubblico o privato) richiedere ai dipendenti se siano vaccinati o meno, o di fornire informazioni sul proprio stato vaccinale;

(b) il controllo del datore di lavoro dovrà essere mirato esclusivamente a verificare la validità del green pass e dovrà essere istantaneo, senza cioè determinare la conservazione e/o la raccolta dei dati personali dei lavoratori.

La nuova normativa (art. 3 del D.L 127/2021 che è intervenuto modificando l’art. 9 septies del D. L. 52/2021), calibrata in relazione alle disposizioni vigenti in materia di privacy, introduce poi per i datori di lavoro – che si trovano ad essere titolari di questa nuova attività di trattamento – alcuni obblighi specifici, che possono essere così riassunti:

 – definizione, entro il 15 di ottobre 2021, delle modalità operative per l’organizzazione delle verifiche nei luoghi di lavoro (da poter effettuare anche a campione), mediante stesura di una specifica e dettagliata policy aziendale, da rendere fruibile a tutti i soggetti interessati al trattamento;

–  predisposizione di un apposito atto di designazione in forza del quale sarà individuato ed espressamente autorizzato (ai sensi dell’art. 29 del GDPR), su indicazione del datore di lavoro, il soggetto incaricato di controllare la validità del green pass (c.d. verificatore), mediante l’utilizzo dell’applicazione digitale “VerificaC19”, che potrà essere installata su dispositivi mobili o fissi forniti dall’azienda, nonché la corrispondenza dei dati anagrafici con quelli visualizzati dalla predetta applicazione;

informazione al lavoratore subordinato (ovvero al professionista o collaboratore autonomo dell’azienda), interessato dalle operazioni di controllo, sul trattamento dei suoi dati personali (art. 13 GDPR), che verrà effettuato tramite verifica del green pass con l’applicazione digitale “VerificaC19”;

–  aggiornamento ed integrazione del registro dei trattamenti aziendali con le informazioni relative alle modalità di verifica della validità del green pass, con il rischio di incorrere, in caso contrario, nelle sanzioni previste dall’art. 83 del GDPR.

Sarà pertanto indispensabile curare puntualmente la compliance a tali adempimenti, poiché l’omissione delle misure a tutela della privacy esporrebbe il datore di lavoro al rischio di essere destinatario non solo delle sanzioni previste dalla normativa emergenziale di cui all’art. 9 septies, comma 9, del D.L. 52/2021 (come modificato dall’art. 3 del D. L. 127/2021), ma anche di quelle delineate dalla normativa generale di cui al GDPR.  

A cura dell’Avv. Leonardo Gagliardini


Ottemperanza di chiarimenti e danno da perdita di chance. Il Consiglio di Stato fa il punto.

Con la sentenza n. 6477 pubblicata il 27 settembre scorso, in un giudizio curato dall’Avv. Amici per lo Studio Mariani Marini, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato ha precisato alcuni principi in materia di c.d. ottemperanza di chiarimenti e danno da perdita di chance.

Il caso era quello di una società, ingiustamente esclusa per alcuni mesi dalla possibilità di partecipare a gare pubbliche a causa di una erronea annotazione nel casellario informatico dell’A.V.C.P., che aveva ottenuto dal TAR (con decisione confermata in appello) una sentenza in suo favore di condanna al risarcimento del danno.

All’esito della mancata determinazione del quantum, non liquidato in sede di merito, era stato avviato un giudizio di ottemperanza avanti al Consiglio di Stato conclusosi con una liquidazione da parte del Commissario ad Acta, che nell’ambito della sua attività di stima aveva chiesto ed ottenuto dal Collegio chiarimenti in ordine ai criteri di quantificazione ai sensi dell’art. 112, co. 5, e 114, co. 7, c.p.a.

La relativa ordinanza di chiarimenti, unitamente alla determinazione del Commissario ad Acta, erano state poi oggetto di richiesta di revoca da parte dell’impresa, prima, e di successivo reclamo ex art. 114, co. 6, poi.

Con la sentenza n. 6477/2021 il Consiglio di Stato ha compiuto una attenta valutazione in ordine alla ammissibilità del reclamo, in ragione del contenuto effettivo (decisorio o meno) del provvedimento adottato a seguito della richiesta di chiarimenti ed ha scrutinato l’esatta portata della sentenza di condanna e del danno da perdita di chance riconosciuto dal Tar, con una attenta analisi della differenza tra chance secondo la c.d. concezione ontologica e chance secondo la c.d. concezione eziologica.

Sulla conseguente liquidazione in via equitativa e sugli elementi di prova da acquisire nel giudizio di merito sono stati poi precisati i più recenti approdi giurisprudenziali di settore ed è stata poi emessa la pronuncia di rigetto del reclamo.


Prove preselettive di concorso: la commissione esaminatrice può stabilire un voto minimo anche se non previsto dal bando

Con la sentenza n. 630 pubblicata lo scorso 13 settembre, Il Tar Umbria ha affermato un importante principio in tema di poteri delle commissioni esaminatrici nella fissazione di un voto minimo per il superamento delle prove preselettive, laddove il bando di concorso non aveva fissato soglie di superamento di tali prove.

La questione centrale all’esame del Tar Umbria atteneva appunto alla definizione dei poteri della Commissione esaminatrice di concorso rispetto allo svolgimento ed alla valutazione delle prove preselettive.

In giurisprudenza si contrapponevano due orientamenti specifici in tema di indicazione del voto minimo di superamento delle preselezioni da parte della Commissione: uno più risalente del Consiglio di Stato (Sez. V, ord. n. 5346/05) che aveva affermato che la Commissione potesse discrezionalmente stabilire il punteggio minimo di idoneità (non indicato dal bando) e non anche il numero massimo dei candidati idonei, in quanto la prima attività attiene alla mera determinazione/specificazione dei criteri di valutazione delle prove preselettive, rimessa appunto alla Commissione; un altro orientamento più recente di alcuni Tribunali Amministrativi Regionali (Veneto e Puglia) riteneva invece che, se il bando non aveva fissato un voto minimo per il superamento delle prove preselettive, sarebbe stato precluso alla Commissione individuarlo, laddove ciò avesse ridotto il “numero massimo” dei candidati da ammettere alle prove di esame. Sullo sfondo di tale ultimo orientamento restrittivo vi era l’affermazione secondo la quale le preselezioni hanno il solo scopo di “scremare” il numero dei candidati di concorso, al fine di garantirne la “celerità” delle relative operazioni, e non anche quello di operare una prima selezione dei più meritevoli.

Il Tar Umbria, con la decisione n. 630/2021, in totale controtendenza rispetto al più recente orientamento di altri tribunali amministrativi, ha affermato che “anche in assenza di un’espressa prescrizione ad hoc, la commissione di concorso può stabilire il punteggio minimo di idoneità per limitare il numero dei candidati da ammettere alle prove scritte”.

Sono state pertanto recepite le difese dell’amministrazione, difesa dall’Avv. Fabio Amici, con le quali era stato sottolineato come sottrarre alla Commissione esaminatrice il potere discrezionale di fissare il voto di superamento della prova, pur non precisato dal bando, avrebbe significato obliare il principio di carattere generale secondo il quale la Commissione può specificare i contenuti delle prove fino al limite di non introdurre nuovi criteri di valutazione non conosciuti dai candidati al momento della presentazione delle domande.