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Il “non finito architettonico” e le sue conseguenze. L’Adunanza Plenaria chirisce gli effetti del mancato completamento delle opere edilizie.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con l’importante pronuncia n. 14 del 30 luglio 2024, chiarisce gli effetti della decadenza dei titoli edilizi e la sorte delle opere incompiute realizzate in base ad essi, dichiarando legittima, in determinati casi, la prescizione demolitoria ordinata dall’autorità pubblica.

In un caso di decadenza di un titolo edilizio in forza del quale erano state realizzate opere parziali legittimamente eseguite in base al permesso, ma non completabili, è legittima la sanzione ripristinatoria ordinata dal Comune.

Il Consiglio di Stato ha infatti precisato la nozione di “totale difformità” in relazione al “non finito architettonico”.

La ‘totale difformità’, si legge nella decisione n. 14/2024, “si verifica non solo in caso di ampliamento non autorizzato, ma anche nel caso di mancato completamento della costruzione evi sia un aliud pro alio.
Il permesso di costruire consente di realizzare solo l’opera descritta nel progetto e avente caratteristiche fisiche e funzionali ben determinate: l’abuso per totale difformità sussiste nel caso di realizzazione di “un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche planivolumetriche”.
Ciò è ravvisabile quando il manufatto sia stato parzialmente edificato con il cd. ‘scheletro’ e anche quando sia oggettivamente diverso rispetto a quello progettato, dovendosi un’opera qualificare abusiva per totale difformità ogni qual volta il risultato finale consista in una struttura che non è riferibile aquella assentita.
Nei casi di ‘divergenza tra consentito e realizzato’ rientra il “non finito architettonico”, il quale è ravvisabile quando le opere realizzate sono incomplete strutturalmente e funzionalmente, tanto da far individuare un manufatto diverso da quello autorizzato, oppure quando vi è stata la modifica dello stato dei luoghi con la realizzazione di un quid che neppure consenta diravvisare un ‘volume’”
.

Ne consegue che sussiste il fondamento normativo per disporre la restituzione in pristino – incaso di decadenza del permesso di costruire – qualora siano state eseguite solo opere parziali, non riconducibili al progetto approvato sotto il profilostrutturale e funzionale.

Se non sono completate, e neppure possono esserle, in quanto non può essere rilasciato un nuovo permesso di costruire, il mancato completamento – e cioè la cd opera incompiuta – comporta di per sé un degrado ambientale e paesaggistico.
Non tutto quanto è stato lecitamente realizzato può dunque essere mantenuto in loco: va rimosso quanto è stato realizzato, in difformità (anche in minus) da quanto è stato assentito.

La ‘divergenza tra consentito e realizzato’ sussiste, dunque, non solo quando ‘si costruisce in più del consentito’, ma anche quando vi è il cd “incompleto architettonico”, configurabile sotto il profilo temporale qualora vi sia stata la decadenza del permesso di costruire, secondo le regole generali, e non sia possibile ottenere un nuovo titolo abilitativo, ovvero l’interessatonon lo richieda.
Tale divergenza è configurabile quando vi è la realizzazione parziale di un complesso intervento edificatorio autorizzato (ad es. una sola costruzione autonoma e scindibile al posto di plurime costruzioni), quando i lavori si siano fermati prima dell’ultimazione del manufatto (durante la fase degli scavi odopo la realizzazione anche parziale del solo “scheletro”, senza la copertura,le scale, i solai, il tetto o la tamponatura esterna).

L’art. 31 del Testo Unico dell’Edilizia, pertanto, si applica quando le opere incomplete non sono autonome, scindibili e funzionali.
Quando l’opera incompleta non ha tali caratteristiche e si riduce, ad esempio, alla realizzazione dei soli pali di fondazione, allo scavo del terreno, alla costruzione di pilastri o della struttura in cemento armato senza la tamponatura (c.d. scheletro), si tratta di un’opera riconducibile alla totale difformità dal permesso di costruire, in quanto di certo non può essere rilasciato il titolo abilitativo per la realizzazione di un manufatto privo di una autonoma finalità. Tale manufatto, per le proprie caratteristiche di grave incompletezza non superabile mediante il rilascio di un ulteriore permesso di costruire serichiesto, costituisce anche causa di degrado dell’ambiente circostante.

Ne discende, la legittimità dell’ordine ripristinatorio.

In conclusione, quindi, l’Adunanza Plenaria, ha stabilito i seguenti principi:

“- in caso di realizzazione, prima della decadenza del permesso di costruire,di opere non completate, occorre distinguere a seconda se le opere incompletesiano autonome e funzionali oppure no;

nel caso di costruzioni prive dei suddetti requisiti di autonomia efunzionalità, il Comune deve disporne la demolizione e la riduzione in pristino ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, in quanto eseguite in totale difformità rispetto al permesso di costruire;

  • qualora il permesso di costruire abbia previsto la realizzazione di una pluralità di costruzioni funzionalmente autonome (ad esempio villette) che siano rispondenti al permesso di costruire considerando il titolo edificatorio in modo frazionato, gli immobili edificati – ferma restando l’esigenza diverificare se siano state realizzate le opere di urbanizzazione e ferma restando la necessità che esse siano comunque realizzate – devono intendersi supportati da un titolo idoneo, anche se i manufatti realizzati non siano totalmente completati, ma – in quanto caratterizzati da tutti gli elementi costitutivi edessenziali – necessitino solo di opere minori che non richiedono il rilascio diun nuovo permesso di costruire;
  • qualora invece, le opere incomplete, ma funzionalmente autonome, presentino difformità non qualificabili come gravi, l’Amministrazione potràadottare la sanzione recata dall’art. 34 del T.U.;
  • è fatta salva la possibilità per la parte interessata, ove ne sussistano tutti i presupposti, di ottenere un titolo che consenta di conservare l’esistente e dichiedere l’accertamento di conformità ex art. 36 del T.U. nel caso di opere “minori” (quanto a perimetro, volumi, altezze) rispetto a quelle assentite, in modo da dotare il manufatto – di per sé funzionale e fruibile – di un titolo idoneo, quanto alla sua regolarità urbanistica”.

Appalti pubblici. Valutazione di affidabilità morale e professionale. Giudizio in concreto per il singolo contratto.

La Terza Sezione del Consiglio di Stato, con decisione pubblicata in data 17/06/2024 con il n. 5426/2024, in un giudizio patrocinato dall’Avv. Fabio Amici, ha ribadito che, nell’ambito di una procedura di gara di appalto pubblico, la valutazione sulla integrità ed affidabilità deve essere effettuata in concreto ed in relazione allo specifico contratto oggetto di affidamento.

Nel giudizio deciso da Consiglio di Stato, la ricorrente aveva contestato la circostanza di essere stata esclusa, per inaffidabilità morale e professionale, dalla gara relativa ad un lotto di forniture per le aziende sanitarie regionali, quando l’aggiudicazione per altro lotto della stessa gara non era stato revocato o annullato e in una situzione in cui altre commesse in favore delle stesse aziende erano in corso di esecuzione.

Il Consiglio di Stato ha tuttavia confermato l’orientamento della giurisprudenza amministrativa che è concorde nel ritenere che la valutazione sulla integrità ed affidabilità debba essere effettuata in concreto in relazione al contratto oggetto di affidamento e pertanto ai fini della specifica procedura di gara.

Non si tratta quindi di una valutazione generale relativa ad ogni possibile vicenda contrattuale e ogni possibile affidamento, ma, come precisato dallo Cons. Stato, Sez. V, 13.5.2021, n. 3772, relativa al contratto da affidare: “l’amministrazione è chiamata a svolgere un sillogismo giuridico complesso che si articola su due livelli, dalla cui integrazione discende la complessiva verifica del grave illecito professionale a effetto escludente: da un lato occorre che il comportamento pregresso assuma la qualificazione oggettiva di comportamento in grado d’incrinare l’affidabilità e integrità dell’operatore nei rapporti con l’amministrazione; dall’altro, il fatto così qualificato va messo in relazione con il contratto oggetto dell’affidamento, così da poter declinare in termini relativi e concreti la nozione d’inaffidabilità e assenza d’integrità, ai fini della specifica procedura di gara interessata”(v. anche, in termini, Cons. Stato, sez. V – 8.1.2021, n. 307 e Sez. II, 9.5.2023, n. 4669 cit.).

Ciò è esattamente quanto ha fatto nel caso di speice ove la stazione appaltante, quale centrale di committenza per le aziende sanitarie regionali, ha valutato l’affidabilità ed integrità del concorrente rispetto allo specifico lotto oggetto di affidamento.
La circostanza che le aziende sanitarie regionali abbiano in corso di esecuzione alcune commesse affidate al medesimo concorrente, e che quest’ultio fosse risutato vincitore di altro lotto della stessa gara, è stato ritenuto irrilevante ai fini del giudizio di inaffidabilità per lo specifico contratto da affidare e per condotte riferite, non già alle commesse pregresse, ma alla procedura di affidamento oggetto del lotto per cui era causa.


Legittime le recinzioni in zona agricola a protezione di edifici abitativi

È stata decisa dal Consiglio di Stato (Sez. VII, sent. n. 7006 del 17.7.2023), su un ricorso promosso dall’Avv. Fabio Amici, la questione relativa alla legittimità di una S.C.I.A. che aveva assentito, all’interno di un’area classificata come “area agricola periurbana – Ep”, una recinzione di un’area di parcheggio a servizio di abitazioni, opera qualificata dal compente comune come “pertinenziale” e pertanto ritenuta assentibile ai sensi dell’art. ex art. 21, comma 3, lett. b) e n) del Reg. Reg. Umbria 2/2015.

Il Tar Umbria, in primo grado, aveva giudicato illegittima la recinzione realizzata in zona agricola, atteso che all’interno di tale comparto Ep sarebbe stasta esclusa, per il Collegio di prime cure, l’esecuzione di opere non funzionali ad un’impresa agricola.

E ciò ai sensi degli ai sensi degli articoli 88 e ss. della L.R. Umbria n. 1/2015.

La legislazione regionale umbra regola infatti la materia della realizzazione di recinzioni in area agricola in due disposizioni, apparentemente di non perfetto coordinamento: l’art. 89, co.2, della L.R. n. 1/2015 e l’art. 21 del R.R. Umbria n. 2/2015.

L’art. 89 contiene disposizioni di carattere generale sulla realizzazione di diverse tipologie di interventi in zona agricola. La prima parte del secondo comma, in particolare, sancisce la compatibilità con le zone agricole di “attrezzature sportive e ricreative pertinenziali alle abitazioni“, nonchè, più avanti, “la realizzazione di opere di sistemazione idraulica, per l’irrigazione e di opere pertinenziali“.

La parte finale di tale comma 2, tuttavia, stabili(va) che “(fosse) esclusa ogni forma di recinzione dei terreni o interruzione di strade di uso pubblico se non espressamente previsto dalla legislazione di settore o recinzioni da installare per motivi di sicurezza, purchè strettamente necessarie a protezione di edificied attrezzature funzionali, anche per attività zootecniche”.

Disposizioni che, pur non perfettamente coordinate, sembravano comunque consentire impianti anche non funzionali all’agricoltura ed opere pertinenziali sia a quest’ultima che alle abitazioni, con un divieto finale di realizzazione di recinzioni, salvo che per motivi di sicurezza a protezione di edifici ed attrezzature funzionali”.

Il divieto di realizzazione di recinzione in area agricola, pertanto, sembrava non essere affatto assoluto, come invece sostenuto dal T.A.R. Umbria, poiché sopportava le eccezioni delle opere pertinenziali in generale e delle recinzioni a tutela della sicurezza degli edifici, agricoli e/o residenziali.

Tale lettura appariva peraltro confermata dall’art. 21 del R.R. n. 2/15 relativo alle opere pertinenziali, definite come quei “manufatti che, pur avendo una propria individualità ed autonomia, sono posti in durevole ed esclusivo rapporto di proprietà, di subordinazione funzionale e ornamentale, con uno o più edifici principali di cui fanno parte” (co. 1).

Il comma 3 dello stesso articolo 21 stabilisce che sono opere pertinenziali eseguibili senza titolo abilitativo una serie di interventi, tra i quali (lett. n) “le recinzioni, i muri di cinta e le cancellate che non fronteggiano strade o spazi pubblici e che non interessano superfici superiori a metri quadrati 3.000“.

Sono invece opere pertinenziali sottoposte a S.C.I.A., secondo il successivo comma 4, tre le altre (lett. g) “le recinzioni, i muri di cinta e le cancellate di qualunque tipo che fronteggiano strade o spazi pubblici o recinzioni pertinenziali di edifici che interessino superficie superiore a metri quadrati 3.000“.

La stessa lett. g) dell’articolo in commento, inoltre, precisa che “nelle zone agricole le recinzioni che interessino superficie superiore a metri quadrati 3.000 sono consentite esclusivamente per le imprese agricole, purchè a protezione di attrezzature o impianti“.

Tale ultima precisazione sarebbe stata del tutto incongrua ed illogica se si fosse interpreato il divieto di recinzioni di cui all’art. 89 della L.R. 1/15 come esteso a tutte le recinzioni in zona agricola salvo quelle per motivi di sicurezza ed a protezione di edifici ed attrezzature funzionali all’impresa agricola, come aveva sostenuto dal T.A.R.

In tale ultimo caso, infatti, la lett. g) del comma 4 del Regolamento n. 2 avrebbe introdotto una prescrizione per le superfici superiori a 3.000 mq del tutto inutile, poichè anche le recinzioni di superfici inferiori (classificate dal co. 3, lett. n) come attività libera) avrebbero subìtp l’analogo limite posto in generale dall’art. 89 (che, secondo la lettura del T.A.R., avrebbe vietato tutte le recinzioni in zona agricola salvo che per la protezione di edifici ed attrezzature di imprese agricole).

Il fatto che la lett. n) del co. 3 di tale art. 21 consente la realizzazione di recinzioni come attività libera per superfici inferiori a 3.000 mq, senza limitazioni per le aree agricole (che invece compare alla lett. g) del co. 4.) significa pertanto che in zona agricola sono consentite recinzioni di superfici inferiori a 3.000 mq a protezione di qualunque edificio, anche non funzionale ad una impresa agricola.

Dal coordinamento delle norme citate si deduceva, pertanto, che, l’art. 89 non consente le sole recinzioni in zona agricola funzionali alle imprese agricole, vietando quelle a protezione di edifici.

La questione è stata oggi risolta dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 7006/2023, alla luce della sopravvenuta decisione della Corte Costituzionale n. 175 del 2019 proprio sul citato art. 89, co. 2, della L.R. Umbria n. 1/2015.

Infatti, ha oggi precisato il Consiglio di Stato, “dall’ultima parte del comma 2 dell’articolo 89 della legge regionale n. 1/2015, nella versione riveniente dalla sentenza della Corte Costituzionalen. 175 del 2019, applicabile a tutti i rapporti giuridici pendenti al momento della decisione – che ha dichiarato l’illegittimità dell’ultimo periodo del comma originario, nella parte in cui, nelle zone agricole, vietava ogni forma di recinzione dei terreni non espressamente prevista dalla legislazione di settore o non giustificata da motivi di sicurezza, nonché strettamente necessaria a protezione di edifici ed attrezzature funzionali, anche per attività zootecniche – non è più estrapolabile un divieto generalizzato di realizzare recinzioni di terreni in zona agricola.

Qualsivoglia interpretazione che pretendesse di estrapolare siffatte limitazioni dalla norma suddetta, per come attualmente in vigore, sarebbe contraria alle previsioni contenute nell’art.842 del codice civile – che consente al proprietario di chiudere l’accesso al fondo in ogni momento – e così diverrebbe violativa della riserva di legge statale in materia diordinamento civile prevista dall’art.117 comma 2 lett. l).

Al caso di specie, dopo l’intervento della Consulta, va dunque a maggior ragione applicata la previsione contenuta nella lettera g) dell’art. 21, comma 3, del Regolamento Regionale n. 2 del 2015 la quale autorizza la realizzazione di opere pertinenziali, fra cui, alla lett. n) le “recinzioni, i muri di cinta e lecancellate (…) che non interessino superfici superiori a metri quadri tremila.”


Il principio di equivalenza delle certificazioni di qualità negli appalti pubblici

Con sentenza n. 434 pubblicata oggi 5.07.2023, il Tar Umbria ha deciso una controversia sorta tra un’associazione temporanea di imprese e un Comune, patrocinato dall’Avv. Amici, riguardo l’affidamento di un servizio pubblico.

In particolare, il Comune, per mezzo dell’ente provinciale, indiceva una procedura di gara per l’affidamento di un servizio di trasporto scolastico. Alla gara prendeva parte la suddetta associazione, che tuttavia non si aggiudicava l’appalto.

Al termine della procedura, l’associazione impugnava di fronte al Tar Umbria il provvedimento di aggiudicazione dell’appalto vinto da un altro RTI, il quale, secondo la ricostruzione offerta dal ricorrente, era asseritamente sprovvista di un titolo idoneo poiché non risultava in possesso della specifica certificazione di qualità richiesta per svolgere il trasporto scolastico, bensì possedeva solamente una certificazione di idoneità al noleggio di autovetture, autobus e minivan, con o senza conducente.

Avverso tale tesi, le amministrazioni resistenti evocavano il principio di equivalenza vigente in materia di procedure di evidenza pubblica ed applicabile anche alle certificazioni di qualità, la cui verifica andrebbe condotta secondo criteri di congruenza e pertinenza sostanziale.

Il Tar adito, in adesione a quanto sostenuto dalle parti resistenti, ha rigettato il ricorso valutando che la certificazione posseduta dal RTI aggiudicatario risultasse essere “idonea, pertinente e proporzionata al trasporto scolastico”.

Nella sentenza, infatti, si specifica che “le norme tecniche come quella di cui in questa sede si converte si risolvono in una serie articolata di requisiti generali, la cui esistenza garantisce un determinato livello qualitativo della struttura aziendale (…) in modo da garantire la corretta esecuzione dei rapporti contrattuali e la soddisfazione del cliente. (…) Detto in altri termini, nel caso che qui interessa, la certificazione richiesta dalla stazione appaltante non attiene direttamente alle modalità con le quali l’operatore economico certificato rende il servizio (di trasporto scolastico o altro), bensì al livello qualitativo della struttura aziendale e dei processi lavorativi”.

Pertanto, in materia di requisiti di idoneità professionale e di capacità tecnica e professionale, in virtù del principio di equivalenza tra certificati, da ritenersi, come sottolinea il Tar Umbria, “immanente al settore dei contratti pubblici anche laddove non espressamente menzionato dalla legge di gara”, impone di valutare funzionalmente e con ragionevolezza il requisito di conformità alla norma tecnica posseduto dai vari operatori.


RINNOVO TACITO DEI CONTRATTI DI LOCAZIONE DI IMMOBILI DELLA P.A.

Con sentenza del 10.01.2023 il Tribunale Ordinario di Perugia ha deciso una controversia sorta tra un’associazione sportiva e un Comune, patrocinato dall’Avv. Amici, riguardo la cessazione di un contratto di locazione di un terreno di proprietà pubblica.

Dopo aver già avviato da alcuni anni le proprie attività sull’area, l’associazione sportiva presentava domanda all’Ente di ampliamento della superficie utilizzabile, così da garantire una maggiore efficienza dell’intero impianto sportivo. L’Ente accoglieva la richiesta fissando con atto formale i termini e le condizioni di affidamento in gestione all’associazione sportiva dei terreni di proprietà comunale.

In seguito, all’associazione veniva contestata la violazione dei patti contrattuali per aver realizzato dei manufatti abusivi e veniva intimato alla stessa di lasciare il terreno per scadenza dei termini contrattuali.

L’associazione presentava così un ricorso per annullare le diverse decisioni dell’Ente. Nei motivi di doglianza presentati di fronte al Tribunale Ordinario territorialmente competente, la ricorrente invocava l’avvenuto rinnovo tacito del contratto e la sua vigenza ed enefficacia della disdetta comunale

La questione controversa era costituita dalla avvenuta scadenza del contratto, contemplata in un’espressa previsione, aspetto a cui andava aggiunta la mancanza di qualsivoglia clausola di rinnovazione, né espressa, né tacita, e altresì la mancanza di comportamento concludente dell’Ente, che, invero, aveva manifestato volontà contraria.

Secondo una giurisprudenza risalente della Corte di Cassazione, la rinnovazione non potrebbe desumersi dalla sola permanenza del conduttore nella disponibilità dell’immobile dopo la scadenza o dalla circostanza che il locatore abbia continuato a percepire il canone senza proporre tempestivamente domanda di rilascio, dovendo tali fatti essere qualificati da altri elementi idonei a manifestare in modo non equivoco la volontà delle parti di mantenere in vita il rapporto locativo (Cass. Civ., sez. III, 7.12.2017, n. 29313; Cass. Civ., sez. III, 21.11.2011, n. 24456).

Il Tribunale adito ha respinto la domanda proposta dall’associazione ricorrente, non tanto per aver escluso la rinnovazione tacita, ma in accogliamento alla domanda riconvenzionale proposta dall’Ente, che aveva comunque comunicato disdetta in tempo utile

Il Tribunale ha recepito sul punto il più recente orientamento della giurisprudenza amministrativa e civile, dichiarando risolto il contratto di concessione d’uso d’immobile per intervenuta disdetta nei termini contrattuali, ma specificando che “anche nel caso di contratti di locazione in cui sia parte una Pubblica Amministrazione, è applicabile l’istituto del rinnovo tacito.”

Ciò in quanto l’istituto in questione non richiede alcuna espressa previsione nel contratto originario, trattandosi non di una manifestazione tacita di volontà della P.A., bensì, di un effetto derivante direttamente dalla legge, superandosi così il fatto che la volontà dell’amministrazione pubblica debba sempre manifestarsi con la forma scritta (C.d.S., sent. 433/2020).

La pronuncia del Tribunale si inserisce in un filone interpretativo condiviso anche dalla più rcente giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Con Ordinanza del 12.04.2023, la Suprema Corte, infatti, ha ribadito il principio secondo il quale “ai contratti di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, stipulati dallo Stato o da altri enti pubblici territoriali in qualità di conduttori, ai sensi dell’art. 42 l. n. 392 del 1978, trova applicazione il tacito rinnovo alle scadenze successive alla seconda, previsto dall’art. 28 l. 392 del 1978, atteso che l’operatività di tale meccanismo non è incompatibile con il principio secondo la quale la volontà della P.A. deve essere necessariamente manifestata in forma scritta, dovendosi ritenere che l’obbligo di tale forma, assolto ab origine con la stipulazione del contratto, validamente permanga e continui a costituire il fattore genetico anche per i sessenni successivi, in difetto di diniego di rinnovazione da parte del locatore, ovvero di disdetta da parte del conduttore alla prima scadenza, o ancora di disdetta, ad opera di uno dei contraenti, alle scadenze successive”.


STABILIZZAZIONE DEI PRECARI.  DIFETTO DI GIURISDIZIONE DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO

Con sentenza del Tar Umbria n. 279 pubblicata il 18 maggio 2023, in un giudizio in cui l’Avv. Amici ha patrocinato l’ente pubblico, è stata riconosciuta la giurisdizione del giudice del lavoro in caso di controversia avente ad oggetto la stabilizzazione del personale precario ex art. 20, co. 1 e 11, del d. lgs. n. 75/2017.

A seguito della pubblicazione, da parte di un’azienda sanitaria, dell’avviso pubblico di stabilizzazione, corredato dai requisiti necessari di partecipazione, la ricorrente aveva presentato la propria domanda di partecipazione alla procedura. Tuttavia, quest’ultima è risultata priva del requisito necessario dell’iscrizione all’Albo dell’Ordine delle professioni infermieristiche. A seguito della sua esclusione dalla procedura, la ricorrente ha quindi impugnato il provvedimento di esclusione.

Il TAR adito, in adesione all’eccezione sollevata dall’ente, ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione in coerenza con la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia. Il Collegio, in particolare, richiama la sentenza delle Sezioni Unite n. 40953 del 21 dicembre 2021, ove viene illustrata la distinzione tra le tipologie di procedure di stabilizzazione di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 20 del d. lgs. n. 75/2017.

La procedura di cui al comma 1 (quella oggetto del caso di specie), “prevista al fine di superare il precariato, ridurre il ricorso ai contratti a termine e valorizzare la professionalità acquisita dal personale con rapporto di lavoro a tempo determinato (…) non è una procedura concorsuale”, e individua piuttosto “un percorso per l’assunzione in presenza di determinati requisiti (oggettivi e soggettivi)”. La procedura di cui al comma 2, invece, integra una procedura concorsuale, dovendo identificarsi, in senso restrittivo, come tale solo quella procedura “caratterizzata dall’emanazione di un bando, dalla valutazione comparativa dei candidati e dalla compilazione finale di una graduatoria di merito, la cui approvazione, individuando i vincitori, rappresenta l’atto terminale del procedimento preordinato alla selezione dei soggetti idonei”.

Il TAR Umbria, riportando altre pronunce della Corte di Cassazione, ha precisato ulteriormente che siano pacificamente da considerarsi procedure concorsuali “sia le procedure connotate dall’espletamento di prove stricto sensu intese, ma comunque libere nella modalità, purché la procedura concreti una selezione tra diversi aspiranti” (v. Cass., SS.UU., 8 maggio 2007, n. 10374); sia i concorsi per soli titoli (v. Cass., SS. UU., 1 marzo 2006, n. 4517)”, escludendo perciò dalla categoria le assunzioni effettuate a seguito di diverse tipologie di procedimento, come le assunzioni dirette o le procedure di mera verifica di idoneità dei soggetti, “giacché il possesso dei requisiti e l’idoneità si valutano in termini assoluti, senza originare una graduatoria di merito”. Il T.A.R., in completa aderenza alla giurisprudenza della Suprema Corte, ha ritenuto dunque che nella vicenda per cui è causa, nella quale la fattispecie ha ad oggetto la procedura di cui all’art. 20, co.1, “non è prevista alcuna procedura concorsuale, bensì esclusivamente un percorso assunzionale, che (…) riguarda dipendenti già reclutati a tempo determinato”, cosicché l’oggetto della controversia riguarda una procedura non concorsuale, non essendo l’ente pubblico chiamato ad una selezione di candidati.

Di conseguenza il ricorso è stato dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo ed è stata disposta la remissione delle parti di fronte al giudice del lavoro. La pronuncia del Tribunale Amministrativo umbro si inserisce in un filone giurisprudenziale di altri Tar, come da ultimo Tar Lombardia, sez. III, 23.1.2023, n. 208 e TAR Lazio, sez. I – Latina, 24.10.2022, n. 8240


“Carta del docente”: depositati dall’Avv. Fabio Amici e dall’Avv. Chiara Egle Orsini i ricorsi in varie giurisdizioni umbre.

Come è noto, l’art. 1, comma 121, della L. 107/2015 ha previsto e tuttora prevede che “Al fine di sostenere la formazione continua dei docenti e di valorizzarne le competenze professionali, è istituita, nel rispetto del limite di spesa di cui al comma 123, la Carta elettronica per l’aggiornamento e la formazione del docente di ruolo delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado.

Il successivo comma 122 del citato art. 1 della L. 107/2015 demanda(va) a un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, la definizione dei criteri e delle modalità di assegnazione e di utilizzo della Carta in questione, mentre il comma 124 del medesimo art. 1 ribadi(va) il carattere obbligatorio della formazione dei docenti, da definite da parte delle singole istituzioni scolastiche.

A sua volta, il C.C.N.L. di categoria, siglato in data 29.11.2007, stabiliva (e stabilisce) che “la formazione costituisce una leva strategica fondamentale per lo sviluppo professionale del personale (…)” e che “l’Amministrazione è tenuta a fornire strumenti, risorse e opportunità che garantiscano la formazione in servizio” (art. 63), mentre “la partecipazione ad attività di formazione e di aggiornamento costituisce un diritto per il personale in quanto funzionale alla piena realizzazione e allo sviluppo delle proprie professionalità” (art. 64)

Nonostante tali previsioni di contratto collettivo, in attuazione art. 1 della L. 107/2015 (di diverso tenore) veniva emanato dal Ministero dell’Istruzione il d.P.C.M. 23 settembre 2015 (le cui disposizioni sono state poi sostituite da quelle del d.P.C.M. 28 novembre 2016 a far data dal 2 dicembre 2016), rubricato “modalità di assegnazione e di utilizzo della Carta elettronica per l’aggiornamento e la formazione del docente di ruolo delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado“.

L’art. 2 di tale d.P.C.M. individuava i destinatari della suddetta Carta elettronica, indicandoli al comma 1, nei “docenti di ruolo a tempo indeterminato presso le Istituzioni scolastiche statali, sia a tempo pieno che a tempo parziale, compresi i docenti che sono in periodo di formazione e prova“. Il successivo comma 4 ribadiva poi che “la Carta è assegnata, nel suo importo massimo complessivo, esclusivamente al personale docente a tempo indeterminato di cui al comma 1“.

L’art. 4 del medesimo d.P.C.M., inoltre, elencava le modalità di utilizzo della Carta, riproducendo in buona sostanza le previsioni dell’art. 1, comma 121, della l. n. 107/2015.

Sulla base di tale quadro normativo e del primo decreto ministeriale attuativo, il Ministero dell’Istruzione aveva peraltro emanato la nota prot. n. 15219 del 15 ottobre 2015 (doc. 190), la quale, al punto 2 (“Destinatari“), ribadiva che “la Carta del docente (e il relativo importo nominale di 500 euro/anno) è assegnata ai docenti di ruolo delle Istituzioni scolastiche statali a tempo indeterminato, sia a tempo pieno che a tempo parziale, compresi i docenti in periodo di formazione e prova, che non siano stati sospesi per motivi disciplinari (art. 2 DPCM)“.

I d.P.C.M. del 23.9.2015 e 28.11.2016 e la nota prot. n. 15219 del 15.10.2015, pertanto, individuavano come esclusivi destinatari dell’indennità di cinquecento (500,00) euro all’anno della suddetta Carta elettronica (detta “Carta del docente”), i soli docenti di ruolo a tempo indeterminato presso le istituzioni scolastiche, cosicché tutti i docenti assunti in servizio a tempo determinato, come gli odierni ricorrenti, non potevano percepire ed in effetti non hanno mai percepito il relativo beneficio.

Della questione si cominciata ad occupare la giurisprudenza amministrativa a partire dall’anno 2016, allorquando il Tar Lazio, con una sentenza della III Sezione (n. 7799/16), confermava gli atti amministrativi del Ministero e la loro applicazione della normativa del 2015, escludendo il personale docente assunto a tempo determinato dalla cerchia dei destinatari della Carta del docente.

In data 16.3.2022 è stata tuttavia pubblicata la sentenza della Sez. VII del Consiglio di Stato n. 1842/2022, che, riformando tale ultima decisione, ha fornito una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art.1, comma 121, della L. 107/2015, stabilendo che tra i destinatari della istituzione della Carta del docente vadano ricompresi anche i docenti a tempo determinato, con conseguente annullamento dei d.P.C.M. del 2015/16 e della circolare del Ministero dell’Istruzione prot. n. 15219 del 15.10.2015 nella parte in cui hanno escluso il riconoscimento di tale istituto ai docenti precari.

Tale decisione, peraltro, è stata motivata tenendo conto anche della disciplina prevista in tema di formazione dei docenti dal ricordato C.C.N.L. di categoria (v. artt. 63 e 64 del C.C.N.L. del 29.11.2007; doc. 184), andando dichiaratamente a “colmare” una “lacuna previsionale dell’art. 1, comma 121, della l. n. 107/2015, che menziona i soli docenti di ruolo”: l’estensione anche ai docenti non di ruolo dei benefici della Carta del docente, è stata dunque disposta introducendo “in via interpretativa” una previsione non presente nella norma (v. C.d.S. n. 1842/2022 cit., punto 6.2.2 in fondo).

Poiché dunque il diritto-dovere di formazione professionale e aggiornamento grava su tutto il personale docente e non solo su un’aliquota di esso l’erogazione della Carta, secondo tale condivisibile decisione, deve essere riconosciuta sia al personale di ruolo che a quello a tempo determinato.

Con successiva Ordinanza della Corte di Giustizia della U.E. (sez. VI del 18.5.2022), la medesima disposizione di cui all’art. 1, comma 121, della L. 107/2015 è stata ritenuta in contrasto con la clausola 4, punto 1, dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18.3.1999 sempre nella parte in cui riserva al solo personale docente a tempo indeterminato e non anche a quello a tempo determinato il beneficio del vantaggio finanziario di cinquecento (500,00) euro all’anno della “Carta del docente”, con violazione, tra l’altro, del generale principio di non discriminazione.

Per effetto di tali interventi giurisprudenziali, aventi carattere innovativo e di interpretazione costituzionalmente orientata e conforme al diritto europeo della norma primaria, il diritto all’indennità della “Carta del docente” deve essere pertanto esteso e riconosciuto ai docenti a tempo determinato, a partire dall’a.s. 2015/2016 e fino a tutto l’a.s. 2021/2022 appena trascorso, con loro diritto alla assegnazione della Carta anche per l’anno scolastico 2022/23 in corso di svolgimento e per quelli a venire ove i medesimi ricorrenti saranno destinatari di contratti a tempo determinato.

Tale riconoscimento è già stato oggetto anche di recenti pronunce giurisprudenziali da parte di corti di merito, tra le quali il Tribunale di Torino, il Tribunale di Vercelli, il Tribunale di Palmi e, da ultimo il Tribunale di Terni.

Alla luce di tale mutato quadro giuridico ed amministrativo, pertanto, la posizione del Ministero è divenuta del tutto incomprensibile, avendo potuto (e dovuto) essere data spontanea attuazione a quanto ormai ritenuto pacifico dalla giurisprudenza di settore.

In mancanza di ciò, molti docenti umbri hanno avviato una massiccia iniziativa giudiziaria con il supporto di una nota sigla sindacale. Gli esiti si sapranno a breve.


Revoca dell’aggiudicazione per ritardo nella consegna dei lavori ed esclusione di concorrente sottoposto a sequestro giudiziario (con esclusione della applicazione dell’art. 80, co. 11, del D. Lgs. n. 50/2016)

Con due importanti decisioni pubblicate il 24 febbraio scorso (n. 94/2023 e n. 99/2023) il Tar Umbria ha affermato alcuni importanti principi in materie di gare pubbliche per l’affidamento di lavori, in due giudizi patrocinati dall’Avv. Fabio Amici.

A fronte della avvenuta revoca della aggiudicazione della prima classificata per avere questa colpevolmente ritardato la consegna dei lavori in via d’urgenza e della successiva esclusione della seconda classifica per avere questa omesso informazioni rilevanti sulla sussistenza di gravi illeciti professionali e per sopravvenuta carenza di requisiti di partecipazione, il Collegio umbro ha puntualizzato alcune delicate questioni giuridiche in materia di pubblici appalti.

Da una parte, con la decisione n. 94/2023, è stata ritenuta corretta la condotta dell’amministrazione aggiudicatrice che aveva deciso di revocare l’aggiudicazione a causa della impossibilità della consegna anticipata dei lavori, e ciò coerentemente al consolidato orientamento giurisprudenziale concludente per la legittimità di una revoca/decadenza dell’aggiudicazione in ragione dell’inadempimento da parte dell’aggiudicatario “dell’obbligo, previsto negli atti di gara, di procedere d’urgenza all’inizio dei lavori, su richiesta dell’amministrazione, nelle more della stipula del contratto”.

Del pari, è stata ritenuta legittima la revoca dell’aggiudicazione a fronte della mancata produzione della documentazione “attinente alla fase esecutiva e di apertura del cantiere (come la idoneità tecnico-professionale di cui agli articoli 17 ed 89 del D. Lgs. n. 81/2008 o il Piano Operativo di Sicurezza) la cui conformità a legge deve essere necessariamente verificata al momento dell’inizio dei lavori anche in caso di consegna anticipata rispetto alla stipulazione del contratto”, come anche la pretesa della stazione appaltante di ottenere a tal scopo il “programma esecutivo dei lavori che, ai sensi del DM 49/2018, l’impresa aggiudicataria deve presentare prima dell’inizio dei lavori”.

Il comportamento dilatorio ed inadempiente assunto dall’aggiudicataria tra la fase di aggiudicazione e quella di verifica dei requisiti e di acquisizione della documentazione propedeutica alla stipula è stato ritenuto quale chiaro indice di inaffidabilità della stessa, con la conseguenza che è stata valutata legittima la motivazione della revoca adottata dall’amministrazione secondo cui “anche i lamentati ritardi nelle attività preliminari alla stipula del contratto di appalto potevano in linea di principio giustificare, da sé soli, la revoca dell’aggiudicazione, come pure sanzionabile “il reiterato atteggiamento non cooperativo dell’aggiudicatario, obiettivamente idoneo a ritardare la stipula del contratto anche a fronte di servizi dichiaratamente connotati di urgenza, in presenza di motivate ragioni di pubblico interesse”.

Di particolare interesse è anche la seconda decisione n. 99/2023, intervenuta a dirimere la controversia che si era poi innestata nella medesima procedura, in considerazione della successiva esclusione della concorrente seconda classificata, che aveva comunicato la volontà di subentro condizionandola ad una determinata data di inizio dei lavori e che aveva rappresentato tardivamente l’intervenuta adozione di provvedimenti giudiziari a carico dei propri socie e legali rappresentanti.

Questa seconda decisione è peraltro intervenuta a dirimere la complessa fattispecie giuridica disciplinata dall’art. 80, co. 11, del D. Lgs. n. 50/2016, in quanto la società seconda classificata era stata posta in amministrazione giudiziaria nella fase di espletamento della gara.

Sul punto, il Tar Umbria ha ritenuto corretta l’esclusione disposta dalla stazione appaltante, in quanto il comportamento omissivo rilevante ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c-bis), del d.lgs. n. 50/2016, si era verificato successivamente all’apertura dell’amministrazione giudiziaria, non avendo l’amministratore giudiziario a tal uopo nominato, nonostante fosse a conoscenza delle misure cautelari a carico di amministratori e soci della società sequestrata e nonostante si fossero tenute ben due sedute di gara dopo la notifica dei provvedimenti di sequestro e custodia cautelare a loro carico, provveduto alla tempestiva comunicazione di tali circostanze alla stazione appaltante.

Ne è conseguito il venir meno di uno dei presupposti di astratta applicabilità dell’art. 80, comma 11, del d.lgs. n. 50/2016, ovvero la riferibilità della causa di esclusione ad un periodo precedente all’affidamento all’amministrazione giudiziaria.

In ogni caso, ha aggiunto il Tar Umbria, in occasione dell’aggiornamento del DGUE, lo stesso amministratore giudiziario si era qualificato come amministratore volontario della società (non chiedendo e/o segnalando l’applicazione dell’art. 80, comma 11 del Codice) e non aveva colpevolmente dichiarato l’avvenuta sottoposizione della società ad un sequestro di sproporzione di cui all’art. 240-bis c.p., rilevante agli effetti di cui all’art. 80, comma 11, del d.lgs. n. 50/2016.


Motivi aggiunti e contributo unificato: importante decisione della Corte di Giustizia Tributaria di Roma

Con una importante decisione del 3 ottobre scorso (n. 10680/2022) la Corte di Giustizia Tributaria di Roma ha accolto il ricorso di una società che chiedeva l’esonero dal pagamento del contributo unificato per la proposizione di motivi aggiunti in un giudizio in materia di appalti pubblici avanti al Tar Lazio.

L’amministrazione resistente sosteneva che la proposizione dei motivi aggiunti avrebbe determinato un considerevole ampliamento dell’oggetto della controversia in quanto sarebbero state introdotte nuove e diverse censure riferite ad un nuovo e diverso provvedimento. In sostanza, il Tar sposava l’interpretazione in base alla quale sarebbe comunque da considerare “domanda nuova” – per la quale sorgerebbe l’obbligo di pagamento di un ulteriore contributo unificato – quella con cui viene impugnato un atto nuovo e diverso rispetto a quello gravato dal ricorso introduttivo.

La tesi è stata ritenuta priva di pregio dalla Corte Tributaria che ha fatto corretta applicazione, tra l’altro, dell’art. 43 del c.p.a., che prevede due tipologie di motivi aggiunti: quelli “propri” che prospettano censure nuove avverso gli stessi atti, ampliando il thema decidendum sul fronte della causa petendi; e quelli “impropri” volti ad impugnare nuovi atti facenti parte del medesimo iter procedimentale ed emanati in pendenza del giudizio, ampliativi del petitum.

In passato, la differenza tra le descritte tipologie di motivi aggiunti era stata ritenuta decisiva ai fini dell’applicazione del regime del contributo unificato. Si riteneva, infatti, che il C.U. non dovesse essere corrisposto in caso di proposizione di “motivi aggiunti propri”; viceversa si riteneva fossero soggetti a nuovo C.U. i “motivi aggiunti impropri” indipendentemente dal contenuto della “nuova” impugnazione e del “grado” di connessione esistente tra gli atti impugnati.

Tale interpretazione, tuttavia, è stata superata a seguito, dapprima, della sentenza C-61/14 della Corte di Giustizia UE, e poi delle note sentenze delle SS.UU. della Cassazione del 2020 nn. 23873 e 23530.

La Suprema Corte, superando nettamente la distinzione tra motivi aggiunti propri e impropri, ha statuito: “In tema di processo amministrativo, al fine di stabilire se sia dovuto il contributo unificato atti giudiziari in caso di deposito di motivi nuovi con il quale si impugnino nuovi atti, non rileva la distinzione tra motivi propri ed impropri, ma, conformemente alla giurisprudenza unionale, occorre accertare se essi determinino un considerevole ampliamento del “thema decidendum” della causa principale, sicché solo in caso di connessione forte tra atti, i quali siano legati da un rapporto di pregiudizialità-dipendenza, è escluso l’assoggettamento al contributo”(Cass. civ. sez. VI, 3.11.2021, n. 31294).

Il criterio di determinazione del regime fiscale del C.U. in caso di proposizione di motivi aggiunti, dunque, deve essere quello del “considerevole ampliamento dell’oggetto della controversia già pendente” alla luce dell’istituto della connessione “forte” o “debole” tra i provvedimenti.

Come noto, la giurisprudenza amministrativa ritiene sussistenti i tratti della connessione “forte” quando sia possibile osservare un legame di consequenzialità necessaria tra i provvedimenti, ovvero quando l’uno costituisca il fondamento dell’altro, cosicché l’illegittimità di quello pregiudiziale provoca l’illegittimità di quello dipendente.

Nel caso di specie, la Determina Dirigenziale impugnata con i motivi aggiunti era dichiaratamente confermativa del provvedimento già oggetto del ricorso principale.

Nessuna modifica sostanziale della graduatoria, né alcun supplemento di istruttoria e rivalutazione delle offerte, erano state disposte con tale determina che, appunto, disponeva di “confermare” il provvedimento impugnato con il ricorso principale. La rettifica operata con suddetta determina risultava dunque meramente confermativa del presupposto provvedimento di aggiudicazione, reiterandone pedissequamente il contenuto lesivo e correggendone solo un errore qualificabile come materiale, sicché non era produttiva di alcun effetto innovativo lesivo per il destinatario.

Al fine di non rischiare di incorrere nella inammissibilità del ricorso principale per intervenuta carenza di interesse, la società ricorrente aveva in via cautelativa proposto motivi aggiunti al ricorso, riproponendo in via derivata i medesimi motivi di gravame già rivolti contro l’atto rettificato (salvo ovviamente quello relativo alla erroneità del conteggio dei punteggi), motivi che venivano pedissequamente trascritti nell’atto.

Emergeva dunque che il provvedimento di rettifica e conferma presentava un legame di stretta e necessaria consequenzialità con la prima aggiudicazione e dunque in connessione “forte” con quest’ultima, essendo entrambi i provvedimenti segmenti del medesimo procedimento amministrativo ed essendo le ragioni della lamentata illegittimità dell’atto consequenziale identiche a quelle rivolte contro l’atto presupposto.

Pertanto, appariva evidente come tale provvedimento di rettifica e conferma oggetto dei motivi aggiunti si ponesse in netta continuità con l’originario provvedimento di aggiudicazione, che è appunto l’oggetto del ricorso principale, in quanto ne integrava una mera conferma a seguito non di un approfondimento istruttorio, ma della semplice correzione di un errore materiale di calcolo

Nessun ampliamento del thema decidendum era pertanto derivato dai motivi aggiunti che sono stati meramente ripetitivi delle censure di gravame già articolate in via principale.

Tesi accolta dalla Corte Tributaria di Roma


Construction workers working on construction site

Approvata la proroga di un anno dei termini dei permessi a costruire e dei piani attuativi

La legge 20 maggio 2022, n. 51 (G.U. n.117 del 20.5.2022), nel convertire in legge, con modificazioni, il decreto-legge 21 marzo 2022, n. 21 (c.d. “Decreto Ucraina bis”), ha prorogato di un anno i termini di inizio e di ultimazione lavori dei titoli edilizi di cui all’art. 15 del T.U.E. ed i termini di validità delle convenzioni di lottizzazione e dei piani attuativi (v. art. 10-septies L. 51/2022).

La proroga si riferisce ai permessi di costruire “rilasciati o formatisi fino al 31 dicembre 2022” e non è automatica, in quanto è subordinata alla “comunicazione dell’interessato di volers(ene) avvalere” e alla condizione che i relativi termini non siano già decorsi e che i titoli edilizi siano urbanisticamente e paesaggisticamente non in contrasto con strumenti nel frattempo approvati. La proroga si applica anche a SCIA, autorizzazioni paesaggistiche e dichiarazioni e/o autorizzazioni ambientali.

Prorogate di un anno anche le convenzioni  di lottizzazione e piani attuativi “formatisi fino al 31 dicembre 2022”. In questo caso la proroga sembra essere automatica e si applica anche a piani e convenzioni che abbiano già usufruito delle proroghe disposte nel 2013 dal c.d. “Decreto del fare” (3 anni) e nel 2020 dal c.d. “Decreto Semplificazioni” (ulteriori 3 anni).

Tale ulteriore proroga riferita alle precedenti del 2013 e 2020 sembra ancora una volta confermare che il Decreto del Fare del 2013 debba essere interpretato come riferito anche alla validità dei piani attuativi (sul punto, la giurisprudenza amministrativa non è stata concorde: favorevole a tale interpretazione Tar Umbria, 10.7.2014, n. 381; contrari il Tar Veneto, Sez. II, 19.6.2019, n. 743 e Tar Campania, Sez. II, 14.2.2018, n. 10).

La nuova disposizione di proroga del Decreto Ucraina bis, così come quella del luglio 2020, sembrano pertanto contenere un inciso di “interpretazione autentica” della disposizione del 2013 e così rendere esplicita l’applicabilità ai piani attuativi di entrambe le proroghe triennali (del 2013 e del 2020), oltre a quella annuale dei giorni scorsi.