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Il “non finito architettonico” e le sue conseguenze. L’Adunanza Plenaria chirisce gli effetti del mancato completamento delle opere edilizie.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con l’importante pronuncia n. 14 del 30 luglio 2024, chiarisce gli effetti della decadenza dei titoli edilizi e la sorte delle opere incompiute realizzate in base ad essi, dichiarando legittima, in determinati casi, la prescizione demolitoria ordinata dall’autorità pubblica.

In un caso di decadenza di un titolo edilizio in forza del quale erano state realizzate opere parziali legittimamente eseguite in base al permesso, ma non completabili, è legittima la sanzione ripristinatoria ordinata dal Comune.

Il Consiglio di Stato ha infatti precisato la nozione di “totale difformità” in relazione al “non finito architettonico”.

La ‘totale difformità’, si legge nella decisione n. 14/2024, “si verifica non solo in caso di ampliamento non autorizzato, ma anche nel caso di mancato completamento della costruzione evi sia un aliud pro alio.
Il permesso di costruire consente di realizzare solo l’opera descritta nel progetto e avente caratteristiche fisiche e funzionali ben determinate: l’abuso per totale difformità sussiste nel caso di realizzazione di “un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche planivolumetriche”.
Ciò è ravvisabile quando il manufatto sia stato parzialmente edificato con il cd. ‘scheletro’ e anche quando sia oggettivamente diverso rispetto a quello progettato, dovendosi un’opera qualificare abusiva per totale difformità ogni qual volta il risultato finale consista in una struttura che non è riferibile aquella assentita.
Nei casi di ‘divergenza tra consentito e realizzato’ rientra il “non finito architettonico”, il quale è ravvisabile quando le opere realizzate sono incomplete strutturalmente e funzionalmente, tanto da far individuare un manufatto diverso da quello autorizzato, oppure quando vi è stata la modifica dello stato dei luoghi con la realizzazione di un quid che neppure consenta diravvisare un ‘volume’”
.

Ne consegue che sussiste il fondamento normativo per disporre la restituzione in pristino – incaso di decadenza del permesso di costruire – qualora siano state eseguite solo opere parziali, non riconducibili al progetto approvato sotto il profilostrutturale e funzionale.

Se non sono completate, e neppure possono esserle, in quanto non può essere rilasciato un nuovo permesso di costruire, il mancato completamento – e cioè la cd opera incompiuta – comporta di per sé un degrado ambientale e paesaggistico.
Non tutto quanto è stato lecitamente realizzato può dunque essere mantenuto in loco: va rimosso quanto è stato realizzato, in difformità (anche in minus) da quanto è stato assentito.

La ‘divergenza tra consentito e realizzato’ sussiste, dunque, non solo quando ‘si costruisce in più del consentito’, ma anche quando vi è il cd “incompleto architettonico”, configurabile sotto il profilo temporale qualora vi sia stata la decadenza del permesso di costruire, secondo le regole generali, e non sia possibile ottenere un nuovo titolo abilitativo, ovvero l’interessatonon lo richieda.
Tale divergenza è configurabile quando vi è la realizzazione parziale di un complesso intervento edificatorio autorizzato (ad es. una sola costruzione autonoma e scindibile al posto di plurime costruzioni), quando i lavori si siano fermati prima dell’ultimazione del manufatto (durante la fase degli scavi odopo la realizzazione anche parziale del solo “scheletro”, senza la copertura,le scale, i solai, il tetto o la tamponatura esterna).

L’art. 31 del Testo Unico dell’Edilizia, pertanto, si applica quando le opere incomplete non sono autonome, scindibili e funzionali.
Quando l’opera incompleta non ha tali caratteristiche e si riduce, ad esempio, alla realizzazione dei soli pali di fondazione, allo scavo del terreno, alla costruzione di pilastri o della struttura in cemento armato senza la tamponatura (c.d. scheletro), si tratta di un’opera riconducibile alla totale difformità dal permesso di costruire, in quanto di certo non può essere rilasciato il titolo abilitativo per la realizzazione di un manufatto privo di una autonoma finalità. Tale manufatto, per le proprie caratteristiche di grave incompletezza non superabile mediante il rilascio di un ulteriore permesso di costruire serichiesto, costituisce anche causa di degrado dell’ambiente circostante.

Ne discende, la legittimità dell’ordine ripristinatorio.

In conclusione, quindi, l’Adunanza Plenaria, ha stabilito i seguenti principi:

“- in caso di realizzazione, prima della decadenza del permesso di costruire,di opere non completate, occorre distinguere a seconda se le opere incompletesiano autonome e funzionali oppure no;

nel caso di costruzioni prive dei suddetti requisiti di autonomia efunzionalità, il Comune deve disporne la demolizione e la riduzione in pristino ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, in quanto eseguite in totale difformità rispetto al permesso di costruire;

  • qualora il permesso di costruire abbia previsto la realizzazione di una pluralità di costruzioni funzionalmente autonome (ad esempio villette) che siano rispondenti al permesso di costruire considerando il titolo edificatorio in modo frazionato, gli immobili edificati – ferma restando l’esigenza diverificare se siano state realizzate le opere di urbanizzazione e ferma restando la necessità che esse siano comunque realizzate – devono intendersi supportati da un titolo idoneo, anche se i manufatti realizzati non siano totalmente completati, ma – in quanto caratterizzati da tutti gli elementi costitutivi edessenziali – necessitino solo di opere minori che non richiedono il rilascio diun nuovo permesso di costruire;
  • qualora invece, le opere incomplete, ma funzionalmente autonome, presentino difformità non qualificabili come gravi, l’Amministrazione potràadottare la sanzione recata dall’art. 34 del T.U.;
  • è fatta salva la possibilità per la parte interessata, ove ne sussistano tutti i presupposti, di ottenere un titolo che consenta di conservare l’esistente e dichiedere l’accertamento di conformità ex art. 36 del T.U. nel caso di opere “minori” (quanto a perimetro, volumi, altezze) rispetto a quelle assentite, in modo da dotare il manufatto – di per sé funzionale e fruibile – di un titolo idoneo, quanto alla sua regolarità urbanistica”.

Sul decorso dei termini per l’attuazione dei Piani Attuativi

In base alla normativa nazionale, decorso il termine stabilito per l’attuazione dei piani particolareggiati, quali i Piani Attuativi, questi diventano inefficaci per la parte che non abbia avuto attuazione, rimanendo fermo a tempo indeterminato soltanto l’obbligo di osservare gli allineamenti dei fabbricati e le prescrizioni di zona stabilite dai piani stessi (art. 17 della L. 1150 del 17.8.1942).

La L.R. Umbria 1/2015, all’art. 57, riproduce sostanzialmente le previsioni della disciplina nazionale, specificando che:

  1. Il termine entro il quale il Piano deve essere attuato è di 10 anni;
  2. decorso tale termine il Piano decade automaticamente per la parte non attuata, ferma la possibilità a tempo indeterminato di realizzare gli interventi edilizi con l’obbligo di osservare gli allineamenti e le prescrizioni di zona;
  3. la parte di piano non attuata e non urbanizzata può essere urbanizzata ed edificata previa approvazione di un nuovo piano attuativo.

Negli ultimi anni sono intervenute diverse norme che hanno disposto la proroga per legge del termine di validità delle convenzioni urbanistiche, accordi similari e relativi piani attuativi.

Il D.L. n. 69/2013 (c.d. “Decreto del fare”), all’art. 30, co. 3-bis, ha disposto che il termine di validità, nonché i termini di inizio e fine lavori nell’ambito delle convenzioni di lottizzazione (art. 28 L. 1150/1942), ovvero degli accordi similari comunque nominati dalla legislazione regionale, stipulati sino al 31 dicembre 2012, sono prorogati di tre anni.

Sul punto, la giurisprudenza amministrativa non è stata concorde nello stabilire se tale proroga di tre anni dovesse ritenersi applicabile anche alla validità dei piani attuativi o meno (favorevole a tale interpretazione Tar Umbria, 10.7.2014, n. 381; contrari il Tar Veneto, Sez. II, 19.6.2019, n. 743 e Tar Campania, Sez. II, 14.2.2018, n. 10).

La questione sembrerebbe tuttavia essere stata superata dall’art. 10, co. 4-bis, del D.L. 16.7.2020 n. 76 (c.d. “Decreto Semplificazioni”) che, nel disporre un’ulteriore proroga di tre anni degli stessi termini prorogati dal “Decreto del Fare” del 2013 per le convenzioni di lottizzazione ed accordi similari, ha precisato che tale proroga riguarda anche i “relativi piani attuativi”, con l’ulteriore precisazione che la medesima si applica anche a quei piani attuativi “che hanno usufruito della proroga di cui all’art. 30, co. 3-bis, del D.L. n. 69/2013 (c.d. “Decreto del fare”).

La nuova disposizione di proroga del luglio 2020 sembra pertanto contenere un inciso di “interpretazione autentica” della disposizione del 2013 e così rendere esplicita l’applicabilità ai piani attuativi di entrambe le proroghe triennali (del 2013 e del 2020).

Per i piani attuativi approvati prima del 31 dicembre 2012 pertanto le potenziali proroghe sono due, entrambe di tre anni, con possibile postergazione massima del termine di complessivi sei anni.