3 Agosto 2024
Con una importante decisione del 3 ottobre scorso (n. 10680/2022) la Corte di Giustizia Tributaria di Roma ha accolto il ricorso di una società che chiedeva l’esonero dal pagamento del contributo unificato per la proposizione di motivi aggiunti in un giudizio in materia di appalti pubblici avanti al Tar Lazio.
L’amministrazione resistente sosteneva che la proposizione dei motivi aggiunti avrebbe determinato un considerevole ampliamento dell’oggetto della controversia in quanto sarebbero state introdotte nuove e diverse censure riferite ad un nuovo e diverso provvedimento. In sostanza, il Tar sposava l’interpretazione in base alla quale sarebbe comunque da considerare “domanda nuova” – per la quale sorgerebbe l’obbligo di pagamento di un ulteriore contributo unificato – quella con cui viene impugnato un atto nuovo e diverso rispetto a quello gravato dal ricorso introduttivo.
La tesi è stata ritenuta priva di pregio dalla Corte Tributaria che ha fatto corretta applicazione, tra l’altro, dell’art. 43 del c.p.a., che prevede due tipologie di motivi aggiunti: quelli “propri” che prospettano censure nuove avverso gli stessi atti, ampliando il thema decidendum sul fronte della causa petendi; e quelli “impropri” volti ad impugnare nuovi atti facenti parte del medesimo iter procedimentale ed emanati in pendenza del giudizio, ampliativi del petitum.
In passato, la differenza tra le descritte tipologie di motivi aggiunti era stata ritenuta decisiva ai fini dell’applicazione del regime del contributo unificato. Si riteneva, infatti, che il C.U. non dovesse essere corrisposto in caso di proposizione di “motivi aggiunti propri”; viceversa si riteneva fossero soggetti a nuovo C.U. i “motivi aggiunti impropri” indipendentemente dal contenuto della “nuova” impugnazione e del “grado” di connessione esistente tra gli atti impugnati.
Tale interpretazione, tuttavia, è stata superata a seguito, dapprima, della sentenza C-61/14 della Corte di Giustizia UE, e poi delle note sentenze delle SS.UU. della Cassazione del 2020 nn. 23873 e 23530.
La Suprema Corte, superando nettamente la distinzione tra motivi aggiunti propri e impropri, ha statuito: “In tema di processo amministrativo, al fine di stabilire se sia dovuto il contributo unificato atti giudiziari in caso di deposito di motivi nuovi con il quale si impugnino nuovi atti, non rileva la distinzione tra motivi propri ed impropri, ma, conformemente alla giurisprudenza unionale, occorre accertare se essi determinino un considerevole ampliamento del “thema decidendum” della causa principale, sicché solo in caso di connessione forte tra atti, i quali siano legati da un rapporto di pregiudizialità-dipendenza, è escluso l’assoggettamento al contributo”(Cass. civ. sez. VI, 3.11.2021, n. 31294).
Il criterio di determinazione del regime fiscale del C.U. in caso di proposizione di motivi aggiunti, dunque, deve essere quello del “considerevole ampliamento dell’oggetto della controversia già pendente” alla luce dell’istituto della connessione “forte” o “debole” tra i provvedimenti.
Come noto, la giurisprudenza amministrativa ritiene sussistenti i tratti della connessione “forte” quando sia possibile osservare un legame di consequenzialità necessaria tra i provvedimenti, ovvero quando l’uno costituisca il fondamento dell’altro, cosicché l’illegittimità di quello pregiudiziale provoca l’illegittimità di quello dipendente.
Nel caso di specie, la Determina Dirigenziale impugnata con i motivi aggiunti era dichiaratamente confermativa del provvedimento già oggetto del ricorso principale.
Nessuna modifica sostanziale della graduatoria, né alcun supplemento di istruttoria e rivalutazione delle offerte, erano state disposte con tale determina che, appunto, disponeva di “confermare” il provvedimento impugnato con il ricorso principale. La rettifica operata con suddetta determina risultava dunque meramente confermativa del presupposto provvedimento di aggiudicazione, reiterandone pedissequamente il contenuto lesivo e correggendone solo un errore qualificabile come materiale, sicché non era produttiva di alcun effetto innovativo lesivo per il destinatario.
Al fine di non rischiare di incorrere nella inammissibilità del ricorso principale per intervenuta carenza di interesse, la società ricorrente aveva in via cautelativa proposto motivi aggiunti al ricorso, riproponendo in via derivata i medesimi motivi di gravame già rivolti contro l’atto rettificato (salvo ovviamente quello relativo alla erroneità del conteggio dei punteggi), motivi che venivano pedissequamente trascritti nell’atto.
Emergeva dunque che il provvedimento di rettifica e conferma presentava un legame di stretta e necessaria consequenzialità con la prima aggiudicazione e dunque in connessione “forte” con quest’ultima, essendo entrambi i provvedimenti segmenti del medesimo procedimento amministrativo ed essendo le ragioni della lamentata illegittimità dell’atto consequenziale identiche a quelle rivolte contro l’atto presupposto.
Pertanto, appariva evidente come tale provvedimento di rettifica e conferma oggetto dei motivi aggiunti si ponesse in netta continuità con l’originario provvedimento di aggiudicazione, che è appunto l’oggetto del ricorso principale, in quanto ne integrava una mera conferma a seguito non di un approfondimento istruttorio, ma della semplice correzione di un errore materiale di calcolo
Nessun ampliamento del thema decidendum era pertanto derivato dai motivi aggiunti che sono stati meramente ripetitivi delle censure di gravame già articolate in via principale.
Tesi accolta dalla Corte Tributaria di Roma